Asolo ReAttiva ha bandito un concorso di scrittura creativa, nel periodo estate/autunno 2019 con l’obiettivo principale di raccogliere dei brani da utilizzare per la produzione di un libro illustrato destinato alla comunità.

I partecipanti hanno prodotto un testo di genere narrativo la cui ambientazione sia il territorio del Comune di Asolo. In particolare, dovranno cercare di valorizzarne la cultura, la storia, le frazioni, le tradizioni e quant’altro rende così unico il nostro territorio. Qui di seguito i due testi dei vincitori:

PRIMO PREMIO CATEGORIA MINORENNI – Alberto Rech

DUE VENEZIANI AD ASOLO

La carrozza procedeva cautamente tra le pietre sconnesse, avvolta da una fitta nebbia che tuttavia lasciava filtrare i raggi dell’alba. Il monotono andirivieni dei cavalli sull’antico selciato venne interrotto improvvisamente dal suono festoso delle campane, che risultava soffuso dal calìgo autunnale.
«El xe el campanàro de Intiòe.» commentò il cocchiere «El gavarà savùo anca łu de l’arivo de Vostra Maestà Serenissima…»
«Tasi, ‘Fonso, fame un piazèr» l’uomo venne interrotto da una donna sulla trentina, con un sontuoso copricapo, che sedeva all’interno della carrozza. «Ti sà ben che a pòra Caterina Cornèr a xe morta co
a ga comprà so fiòl…»
«Gastu zà desmentegà cossa che ti go dito, Elena?» rimproverò l’uomo che sedeva al suo fianco «No ti ga da dirgheo a nesùni, che to sorèa Caterina a xe morta! Ricordate che ti ga ciapà tì el so posto, e dèso che ti ndarà su in Azol ti ga da farte un gròpo sua lengua: i Francesi i xe dapartuto, fà i cocài!»
«Ma Zorzo…» La donna troncò sul nascere la frase. Un fruscio rumoroso tra i rovi aveva allertato il corteo, e Zorzo Cornèr era sceso dalla scaletta con la spada in pugno. Non poteva permettere che qualcuno venisse a conoscenza della morte di Caterina, o, peggio ancora, che derubasse il carico
prezioso che stavano trasportando.
«Chi va là? Per ordine della Serenissima repubblica di Venezia e del doge Agostino Barbarigo, ti ga da dirne chi che ti xe!»
«Mariavèrcoea, che spauròn! Son un porocàn dei Pradàs, sto in tel borgo…»
«Cossa ti xe drio scondàr in te chea sporta?»
«Na brancada de castegne e un broch de cioèt, catài stamatina.»
«Ancuò a ti va ben, va casa cusinartei.»
«Ancora ti xe convinto che i Lusignano voje riciapàrse Cipro?» chiese Elena al fratello Zorzo, dopo che la carrozza si era rimessa in marcia.
«Tiènte in bòn, cara mea, parchè pararìe che i se gapie meso d’accordo col Re de Francia, e se dovesse saltàr fora che no ti xe a vera Regina sciòpa na guera.»
«Na guera!? Dio ce ne scampi! E cossa ghe sarà de cusì bèo a Cipro, par voerla a tutti i costi?»
«No ghe xe pì gnente, dèso che el tesoro el xe qua co noialtri…»
Un bagliore improvviso inondò di luce l’interno della carrozza. Elena spostò la tenda che la proteggeva da sguardi indiscreti e ai suoi occhi si aprì l’orizzonte, ora libero libero dalla nebbia. Davanti a lei si apriva una verde radura, brillante di rugiada, adagiata ai piedi di una linea di dolci colline. Asolo sorgeva come una perla preziosa incastonata tra i colli e i monti, tinta di rosa e rosso dal sole nascente; la rocca svettava, imponente, sulla cima del colle, e sulla torre del castello ruggiva il leone di San Marco.
«Ti gà mia visto che posto, Zorzo?» esclamò meravigliata la Regina «Ti pol vedar tutte e montagnole e i colmèi de sta podesteria. Varda che bel prà, vojo costruir qua el me palasso, con un bel bàrco! Qua ti pol ndar a caccia, piantàr pomèr, perseghèr e armeìn de chea sòrt che tanto me piazeva a Cipro! Cossa distu, Zorzo?»
«Dasìn dasièto, Elena» rammentò il fratello «no ti ga gnancora capìo che pì che se fasemo vedar, pì quei fioldoncàn de Francesi vegnarà in zerca de noialtri? Fate bastàr el castel de Azol, ostrega!»
La regina si rassegnò malvolentieri al fratello. Dopo la sua dipartita da Cipro si era illusa che le acque si fossero calmate: il fastoso ingresso a Venezia, la nomina a regina di Asolo… Per completare il tutto desiderava far nascere una corte regale, qui nella terraferma, dove ospitare letterati e artisti; secondo il suo progetto, Asolo doveva diventare la capitale della cultura e dell’arte.
Un brusio crescente la distolse dai suoi pensieri. Erano ormai giunti presso un largo spiazzo a ridosso del colle.
«Ecco, sòn rivai a la Frattalunga; da qua parte el foresto vecio, che noialtri ghe disòn anca del pontescùr.» Chiarì il cocchiere «Dobòta rivarà n’altra careta pa menàrVe in su. Mi me fermo qua dal feracavài.»
La Regina scese dalla carrozza accompagnata dal fratello. Una folta schiera di persone esclamò “Viva a Regina Cornèr!”,sventolando gonfaloni rosso e oro di San Marco.
Nel frattempo giunse una carrozza decorata con motivi floreali, dalla quale scese un uomo molto alto, di bell’aspetto, con una giacca bordeux e un lungo tabaro per ripararsi dai primi freddi. Arrivato al cospetto della regina, si inginocchiò offrendole le chiavi del castello e della città. La donna le afferrò con sicurezza. «Atu portà el tesoro, amòre?» chiese, sussurrando, il podestà, una volta alzatosi in piedi. La regina annuì con un cenno del capo. Si era innamorata di quell’uomo dalla prima volta in cui lo aveva visto, a Venezia; Girolamo Contarini, podestà di Asolo, era sceso in laguna per confermare gli accordi riguardo l’incoronazione della Cornèr. Galeotto fu quell’incontro, nelle stanze della regina; i due ardevano di passione amorosa, ma nessuno, nemmeno Zorzo, doveva venirlo a sapere: sarebbe stata un’infamia, per i Cornèr e per i Contarini. Girolamo fece accomodare
la Regina nella carrozza, e in seguito il corteo partì alla volta della cittadina.
I due amanti ebbero modo di salutarsi amorevolmente, riparati dai drappeggi millefleurs della carrozza.
«Atu tòlt anca el càice de oro… come se ciameo po’, el Graal?»
«Certo. No go lassà gnente, né a Cipro, né a Venessia.» Rispose fiera la Regina. Dopo le mille sofferenze subite a Cipro, era riuscita a trafugare il tesoro dei Templari senza che nessuno se ne accorgesse, quasi come premio per quanto aveva patito. Il tesoro era a Cipro da più di duecento anni, da quando era stato portato lì da Guido di Lusignano.«Ti ga catà un posto sicuro dove scondarlo, vera?»
«No sta preocuparte, ‘mòre. El tesoro o scondaròn in te a caneva del castel, su a cripta.»
«El Graal, inveze? Ricordate che el frate de Cipro me ga dito che bisogna scondarlo “sub orientissima arae Dei urbis“ parchè el protegga a città e a Serenissima!» «Infatti go pensà de metarlo sotto l’altar dea cesa de San Martin, che a varda a matina; a xe quea pì a oriente dea città.»
Il corteo si fermò davanti al Duomo: i due amanti scesero dalla carrozza fingendo un certa estraneità di fronte ai presenti. La giornata proseguì nella fastosità, tra la lunga celebrazione religiosa con il canto del Te Deum e il banchetto con i nobili Veneziani nel castello. Una volta calato il sole, terminate le formalità, il podestà si incamminò nella chiesetta di San Martino, accompagnato solamente dalla Regina, dal fratello Zorzo e dal Preòsto. Dopo un frettoloso Pater Ave Gloria, il Preòsto prese la preziosa reliquia, il Sacro Graal, e la tumulò in una nicchia nel marmo del presbiterio, «… affinchè el dia protession a sta cità e a Repubblica de San Marco, Secula seculorum,
Amen.»
Anno Domini 1797
L’Armèe era ormai giunta in prossimità del colle di San Martino, dove poter osservare il fronte Asburgico sul Piave. Di fronte ad una piccola chiesetta, Bonaparte fermò la schiera in marcia ed entrò. Si diresse senza indugio nel presbiterio e iniziò a picconare con forza la pavimentazione finché il marmo non lasciò spazio ad una nicchia, dove era nascosto un calice dorato. Il Graal era tornato alla luce. Il leone di San Marco, privo della sua protezione, era stato sconfitto.

PRIMO PREMIO CATEGORIA MAGGIORENNI – Elisa Berdusco

UNA MATTINA PER TUTTA LA VITA

Appena suona la campanella dell’ultimo giorno di scuola cominci già a gustare la libertà da regole e formalità. E invece no. Hai sette anni e non puoi stare a casa da sola. Mamma e papà al mattino mi portavano al lavoro con loro. Ci tenevano a presentarmi bene e quindi vestitino, capelli spazzolati e scarpe di vernice e si partiva per il viaggio. Ancora regole. Ma appena arrivavamo a quel semaforo dopo pochi metri tutto cambiava. C’era Asolo. Diventavo una guerriera o una principessa o una eroina. Quel paesaggio fatto di boschi, di rocce, di case di sassi e viottoli stretti stimolava la mia fantasia e ogni giorno era una avventura.
Nelle giornate di sole mamma e papà mi lasciavano girare libera per il centro. E allora attraversavo coraggiosa la strada da sola per salire al Castello. Il silenzio. Solo gli alti alberi che si muovevano al vento. La paura di essere in un luogo proibito. Salivo di corsa la scaletta sopra il campo di bocce e li mi schiacciavo sul muretto a guardare in giù verso il giardino che si estendeva dietro a quella cinta. Lo sapevo che c’erano gli gnomi lì sotto. Si nascondevano alla mia vista tra i cespugli e le radici. Bisognava guardare con attenzione perché se avessi distolto lo sguardo sicuramente si sarebbero palesati. Con l’orecchio teso ad ascoltare uno scricchiolio mentre le cicale mi prendevano in giro. Il castello mi spaventava con la sua imponenza. Grandi portoni chiusi e quell’alta torre arroccata su quelle rocce che nel fianco lasciavano buchi nei quali si nascondevano lupi mannari o leoni che controllavano severi i miei spostamenti. Non c’era mai nessuno che vi si aggirava in quelle mattine d’estate ma appena sentivo affondare dei piedi nei sassi del giardino ritornavo composta, come se
fossi in visita ad osservare da turista le meraviglie della città e girato l’angolo inforcavo di corsa la discesa del ritorno.
Mamma ogni tanto sbirciava dalle finestre del primo piano, controllava e mi sorrideva con un filo in bocca e gli occhiali appoggiati sul naso. Non mi allontanavo molto da loro e ogni tanto salivo per quei pochi scalini scuri e umidi per assicurarli della mia presenza ed informarli sui miei giri di
ricognizione. La sartoria era calda. Quel calore di casa, asciutto. La scrivania, quell’armadio pieno di tessuti pregiati, i premi e le riviste ben disposte sul tavolino, gli strumenti che non si potevano toccare
mi ricordavano che era un mondo di grandi e che tutto doveva essere rimesso a posto dopo averlo toccato. Ma c’era un buco sotto i tappeti che mi faceva capire che anche lì c’era qualcosa di strano, che proveniva da un altro mondo. Un ombelico. E quei passaggi per la fantasia li potevo ammirare negli specchi magici di papà e appena entravo in quel mondo mi ritrovavo a ballare un lento con il manichino a cui mi stringevo come fosse un principe azzurro, fino a che non serviva a papà. Lui mi vedeva un po’ insofferente a volte e quindi per farmi stare buona mi portava giù con lui. A volte andavamo a prendere il giornale all’edicola che si trovava sotti i portici che portano al Bacaro. In quello stanzone con grossi travi e pieno di fogli e riviste mi prendeva sempre un libretto da colorare, la mia passione, e mi sentivo come dentro una tipografia di un giornale, per il forte profumo di carta e inchiostro. Oppure andavamo dalla signora Virginia, al bar del Municipio. Entravamo nel piccolo locale e l’unico angolo che non mi costringeva a stare in punta di piedi era una vetrinetta al lato del bancone che esponeva il paese dei balocchi a misura bambino. Caramelle, cioccolatini e ovviamente quei famosi ovetti di cioccolato. Oppure andavamo al Centrale a prendere una pallina di gelato e in quell’atmosfera liberty mi sentivo come la protagonista di un film, come riccioli d’oro. A volte anche mamma scendeva con me e facevamo il giro dei portici, passando a salutare la signora Maria al bar dopo aver ammirato i tessuti e i fazzolettini della merceria e salivamo poi dietro per andare a prendere il pane. C’era un forno incastonato nel muro, una grande bocca profonda che mi ricordava le illustrazioni di un libro che avevo a casa sulla favola di Hansel e Gretel. Ma non ero spaventata, il profumo della farina cotta su quella pietra scura non poteva che scaldare il cuore e farmi sentire in un posto sicuro.
Non conoscevo i bambini di Asolo ma ogni tanto mi trovavo con una compagna di scuola i cui genitori lavoravano all’ospedale. La sua nonna abitava appena fuori dal centro e a volte ci permettevano di
girovagare per la città insieme e in libertà. Allora entravamo nei vicoli che si irradiano dai portici ma poco coraggiose non li percorrevamo mai per l’intera lunghezza. Spesso salivamo fino alla chiesa di San Luigi, ora santi Paolo e Pietro, e nella nostra convinzione ci prefissavamo di arrivare in Rocca. Ma appena attraversavamo l’arco per procedere verso le scale indietreggiavamo con timore, quasi con la paura di essere attaccate da un’orda di barbari nemici che volevano assalire la città e quindi scendevamo di corsa verso piazza Bugnoli, al sole, sedute sul bordo della fontana. La città stuzzicava la nostra immaginazione.
Asolo è ancora oggi così. Un luogo di eleganza, di bellezza e in un certo senso di rigore e formalità. Un museo dove si possono toccare le opere d’arte ma con delicatezza per non sciuparle, per farle rimanere intatte nel tempo. Ma allo stesso tempo Asolo è magia dove con un po’ di fantasia ti puoi avventurare in un romanzo bohemien o in un dipinto di qualsiasi epoca tu possa desiderare. Per me Asolo sarà per sempre calda come un tessuto di cachesmire appoggiato sulla tavola da stiro appena usata, sarà profumata di pane e polvere di pietra e tempo passato, umida come gli interni dei palazzi ma asciutta come il sole caldo d’estate che ti accarezza soffiato dal vento. Silenziosa. Solo le parole sottovoce della gente e il fruscio dei cipressi. Solo un rumore a squarciare il silenzio. Le campane di mezzogiorno. Una festa che mi diceva che quella mattinata di attesa era finita. Una mattinata che sembrava sempre dover essere noiosa ma in cui il tempo volava. Quelle campane mi rallegravano il cuore perché vedevo papà correre giù per le scale del suo laboratorio, composto nel suo completo
perfetto che batteva il tacco ad ogni scalino, e si andava al bar per l’aperitivo, per salutare quella mezza giornata passata. E vedevi Asolo movimentata e quasi caotica per il brulicare della gente che si affrettava a sbrigare le ultime commissioni prima del pranzo. Ora a sentire le campane la malinconia si fa da padrona e mi si stringe il cuore. Manca qualcosa in quel quadro sempre fedele dalla mia infanzia. Ma poi sento la magia della città e so che è tutto come sempre e che posso risentire sotto quei portici, tra i vicoli, nei locali e nei profumi quello che è ancora lì. Quella certezza che nonostante tutto Asolo sarà sempre la stessa.